lunedì 5 dicembre 2011

Poesie degli anni tardi


All’ispirazione ritrovata
alla maniera del Dolce Stil Novo
Canzone, flebile d’arpe argentine,
la gomena tu spezza, odioso verme,
lungo serpente che ancorato a riva
tiene il vecchio battello e la mia lingua
sciogli, rinata all’estasi dei voli!
Forse avverrà, mia tormentata attesa
della tua grazia, che un poema intero
dal mio cuore romantico germogli,
sbocci in fiorente glicine d’amore!
Vieni, affrettati a farmi prigioniera
dell’enigma sublime a cui di nuovo
io mi abbandono (come obliquo uccello
si abbandona allo spazio) e la tua forma
futura tramo: al compito il mio genio
tu chiamavi, io non ero che silenzio!




Giovanna Bemporad Esercizi vecchi e nuovi
Edizioni: Archivio Dedalus
Collana: Lumen poesia
Autore: Giovanna Bemporad
Curatore: Andrea Cirolla Numero pagine: 233 





La mestizia una maschera d’ancella
disegna sul mio viso: aria di giglio
che pensa mi incorona; io sento il vuoto
assumere ai miei occhi forma umana.
Ah, facilmente lo schiavo s’impiglia
nella catena che infranse a fatica!
Saggio è chi resta libero, e non cede
neppure al dio che invoglia alle carezze
quando trafitti da spade d’amore
gli occhi ottusi cavalcano nei sogni
sopra l’azzurro amplissimo dei cieli!
Non sottomessa ma ribelle al fascino
dispotico che emana il dio fanciullo,
dolcemente scherzando con la maschera
di mestizia stampata sul mio viso,
mi accomiato dal mondo e da me stessa
con un gesto sommesso di distacco.






L’anima mia che ha tristezze d’aurora
e di tramonto, e il gusto della morte,
non più tenuta viva da illusioni
piange sommessa al clamoroso mare
come un fanciullo triste, abbandonato
senza difesa a tutti i suoi terrori.
Ma quando il sole un riso di rubini
mi semina tra i solchi della fronte,
spiegano i sogni un volo di gabbiani!
Persa in un mondo di gocce d’azzurro
e di freschezza verde, annego in questo
mare più dolce dell’oblio l’angoscia
cupa degli anni tardi, in cui presento,
rammaricando, che il mio tempo è morto.







Felice sospensione ha il mio dolore
nella pausa più dolce di ogni suono
in cui non si ode più, deposto il flauto,
la sua struggente melodia, ma quella
che sopravvive al flebile strumento.
Non meno dolce o meno commovente
nota il cuculo invia dalla lontana
campagna a primavera. E come il vento
su per roseti rampicanti in fiore
si attarda a mietere carezze, prima
che il suo bisogno estremo di compianto
lo induca a un folle, vano imperversare:
così una breve pausa ha il mio dolore
se vedo sopra il campanile a sera
la prima stella accendersi, che pare
contraddica il mio pianto e che sorrida.





Meriggio al mare
Da casa mia venuta in comunione
col deserto del mare – indugia eterno
nella monotonia dell’acqua il tempo;
davanti a me compongono le vele,
mosse dal vento, musica o poesia –
come quelle laggiù la mia non vedo
prendere il largo gonfia e dispiegata,
ma resta inerte, nell’amara calma
di un’aria morta. All’urto dei pensieri
la vacuità del mare fa un commento
sonoro, come al sasso che i fanciulli
scagliano per infrangere il suo specchio!
Non conviene guardare né al passato
né al futuro in quest’ora meridiana;
meglio isolarsi a vivere nel tempo
più veramente nostro, in interiori
colloqui di cui prodiga è la notte,
meglio lasciarsi immobili portare
su una fragile barca all’altra riva.





Interrogazione
Mentre l’ultimo raggio rosseggiante
muore sui vetri, perché vivo ancora
mi chiedo, se il mio cibo è l’amarezza
e il cuore che educavano alla gioia
non batte ormai se non per tenerezza
di primavere, estati e dolci autunni,
ma per gioia non più? Dalla finestra
della mia stanza spio nel plenilunio
fino all’alba a fissarmi il cimitero.
Con gli occhi che già nuotano nel sonno
mi chiedo con un brivido: chi sono?
Chi, per la colpa che scontai nascendo,
dal buio nulla a un attimo di luce
destinò questo corpo, amato corpo,
l’oggetto che dai morti mi difende,
per poi ridurlo in polvere? Risponde
all’incauta domanda il vuoto immenso
e va per la malinconia del cielo
che si annera insensibile la luna.





Alla primavera
Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita,
batte con ritmo languido il risveglio
di primavera, e accende il sentimento
in chi non vuole più se non amare
la cecità del pianto. Lunga o breve
tragica è questa favola che bella
sembrava al tempo in cui l’ineluttabile
certezza non aveva ancora offeso
l’ingenuità dei nostri cuori, illusi
di essere eterni. Eppure mi sorprendo
talvolta a intenerirmi quando un giglio
spunta a piè d’una quercia, o nel giardino
il mandorlo è fiorito. E una dolcezza
di memorie distende il mio dolore,
già creduto incurabile, in un riso.
Poi, quando il giorno muore nella notte,
si fa nera ogni cosa, accoglie e fonde
l’anima curva sotto il suo destino
questo fluire in lei di tante vite.

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