in: Giovanna Bemporad, Odissea, ERI, Torino, 1970
Io lì fermo restai, finché mia madre sopraggiunse
che bevve il nero sangue e mi conobbe,
e tra il pianto disse a me parole alate:
«Come scendesti, figlio mio, da vivo
nell’ombra tenebrosa? Arduo è vedere
questi luoghi, ai viventi. E grandi fiumi
vi sono in mezzo, e orribili correnti,
e l’Oceano, anzi tutto, che uno a piedi
non può varcare, se una bella e salda
nave non abbia...».
Disse; e allora parlando io le risposi:
«O madre mia, necessità mi spinse
quaggiù nell’Ade, a interrogare l’ombra
del tebano Tiresia; e non ancora
giunsi presso all’Acaia, e non ancora
sopra la nostra terra io misi il piede,
ma sempre vado errando, affanni soffro,
da quel giorno che a guerreggiare
contro i Teucri, Agamennone divino
seguii, verso Ilio ricca di puledri.
Ma tu parla sincero, e questo dimmi:
quale fato di morte, lungo strazio,
ti ha sopraffatta? un lento morbo? o forse
ti colpì coi suoi miti dardi e uccise
la saettante Artemide? E del padre
dimmi, che lasciai...». Dissi e
subito a me rispose l’augusta madre:
«... Là nei campi resta tuo padre,
e alla città non scende;
né letti ha per sdraiarsi, né tappeti
splendidi o coltri, ma in inverno
dorme in casa presso il fuoco,
nella cenere, e vesti umili ha indosso.
Quando viene l’estate, o il ricco autunno,
per lui bassi giacigli di ammucchiate foglie
si fanno ovunque, sul declivio
del fertile vigneto: e qui egli giace
dolente, e accresce in cuore la sua pena
sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza
dura gli è sopra. Anch’io così mi spensi,
compiendo il fato, e non la saettante,
che dritta mira, coi suoi miti dardi
mi colse e uccise nelle stanze, e morbo
non mi assalì... ma il rimpianto di te, nobile Ulisse,
del tuo senno e del tuo tenero affetto,
mi ha tolto il bene della dolce vita».
Disse: io, tra me pensando, avrei voluto
l’ombra abbracciare della madre morta.
Tre volte mi slanciai, mi urgeva in cuore
di abbracciarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile ad ombra o a sogno.
Da Odissea, libro XI Quando viene l’estate o il ricco autunno, per lui bassi giacigli di ammucchiate foglie si fanno ovunque, sul declivio del florido vigneto; e qui egli giace dolente, accresce in cuore la sua pena sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza dura gli è sopra. Anch’io cosi mi spensi, vinta dal fato; non mi colse e uccise nelle mie stanze coi suoi miri dardi l’infallibile Artemide, e un malanno non mi assalì, di quelli che dal corpo con lento logorio strappano l’anima: ma il rimpianto di te, nobile Ulisse, del tuo senno e del tuo tenero affetto mi ha tolto il bene della dolce vita”. Disse; io tentai, con l’animo in tumulto, la madre morta stringere al mio petto. Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia di afferrarla, e tre volte dalle braccia mi volò via, simile ad ombra o a sogno; sempre più mi cresceva in cuore acuto strazio, e a lei mi rivolsi supplicando: “Madre, perché non resti, se io mi struggo di abbracciarti, così che entrambi al collo gettandoci le braccia, anche nell’Ade, gustiamo l’acre voluttà del pianto? O forse a me questo fantasma l’alta Persefone ha mandato, perch’io debba più forte ancora piangere e dolermi? Dissi; e con voce fioca mi rispose l’augusta madre: “Ahi, figlio mio. tra gli uomini tutti il più sventurato, non la figlia di Giove, non Persefone ti inganna: si muta in questa forma. quando muore, l’uomo mortale; i tendini disfatti non congiungono più le carni e le ossa, tutto divora l’impetuosa furia del fuoco ardente, appena esce la vita dalle ossa bianche; vola via per l’aria l’anima, e si dilegua come un sogno. Ma tu tendi al più presto a ritornare verso la luce, e tutto serba in mente per ridirlo, più tardi, alla tua sposa”. Omero (da Odissea, traduzione di Giovanna Bemporad, Le Lettere)
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